Notes

SENTO il crac del suo cranio prima ancora di essere colpita dallo schizzo di sangue.
Sussulto, indietreggiando in fretta sul marciapiede. Appoggio male un tallone e mi aggrappo al palo di un cartello di divieto di sosta per reggermi.
Pochi secondi fa quell’uomo era davanti a me. Eravamo tra la folla di persone in attesa del verde a un attraversamento pedonale quando lui ha messo un piede in strada prima del tempo ed è finito sotto un camion. Io mi sono gettata in avanti nel tentativo di salvarlo, ma ho afferrato soltanto il vuoto mentre cadeva a terra. Ho chiuso gli occhi quando ho capito che la sua testa sarebbe stata schiacciata dallo pneumatico, ma l’ho sentita fare pop come il tappo di una bottiglia di champagne.
Colpa sua, stava guardando il cellulare, probabilmente perché aveva già attraversato quello stesso incrocio molte altre volte senza incidenti. È morto per colpa della routine.
La gente trasalisce, ma nessuno urla. Il conducente del veicolo incriminato salta fuori dal camion e s’inginocchia vicino al corpo dell’uomo. Mi allontano dalla scena, mentre diverse persone si precipitano a dare una mano. Non ho bisogno di guardare per sapere che non è sopravvissuto. Mi basta un’occhiata alla mia camicia, un tempo bianca e ora imbrattata di sangue, per capire che non gli serve un’ambulanza, ma un carro funebre.

Mi giro per allontanarmi dal luogo dell’incidente, perché devo trovare un posto dove riprendere fiato, ma il semaforo adesso è verde e la folla ha deciso di andare per la sua strada, rendendomi impossibile procedere controcorrente nella fiumana di Manhattan. Alcuni non distolgono nemmeno lo sguardo dai loro cellulari, mentre passano accanto al cadavere. Rinuncio al tentativo di allontanarmi e aspetto che la folla si diradi. Mi volto verso il luogo dell’incidente, evitando con cura di guardare l’uomo. L’autista del camion è sul retro del veicolo, gli occhi sgranati, parla al telefonino. Tre, forse quattro persone lo stanno assistendo. Alcuni appagano la loro morbosa curiosità, filmando la macabra scena con i rispettivi cellulari.
Se vivessi ancora in Virginia, l’intera scena si sarebbe svolta in modo completamente diverso. Tutti si sarebbero fermati. Si sarebbe diffuso il panico, la gente avrebbe urlato, una troupe giornalistica sarebbe giunta sul posto nel giro di pochi minuti. Ma qui, a Manhattan, un pedone investito da un veicolo è un evento così comune che viene trattato da tutti come un inconveniente: un ritardo nel traffico per alcuni, un guardaroba rovinato per altri. Accade talmente spesso che probabilmente non finirà nemmeno sul giornale.
Per quanto l’indifferenza di alcune persone mi disturbi, è esattamente il motivo per cui dieci anni fa mi sono trasferita a New York. La gente come me appartiene alle città sovrappopolate. La mia vita è irrilevante in un posto di queste dimensioni. Qui ci sono persone con storie molto più penose della mia.
Qui, sono invisibile. Non ho importanza. Manhattan è troppo affollata per interessarsi a me e io la amo per questo.
«Sei ferita?»
Alzo lo sguardo e vedo un uomo che mi tocca il braccio e mi scruta la camicia. Ha un’espressione profondamente preoccupata, mentre mi esamina dalla testa ai piedi in cerca di eventuali ferite. Dalla sua reazione capisco che non è un newyorkese incallito. Vivrà anche qui ora, ma proviene da un luogo che non gli ha completamente cancellato ogni briciola di empatia.