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I am giving you the text from some chapters from a book in Italian (the chapters are: Note Preliminari; Introduzione; Capitolo Primo). They are formatted in Markdown. You will translate them into English and use markdown format in the translation (such as for things like making sure that the italics are maintained, headings and titles are maintained, and everything else is maintained). You will not hallucinate or add any material, or add any text completions or additions of any kind. You will simply stick with the original text and translate it into English.

Here is the text:
<text># NOTE PRELIMINARI

## _Due semplici ma importanti note che è meglio leggere._

### _Nota 1)_

Per comprendere gli eventi che turbinano intorno e condizionano le vite di Renzo e Lucia, occorre tenere presente alcuni dettagli geopolitici di quel tempo.

Lo stato di Milano, che comprende il territorio di Lecco e il paesetto in cui abitano i due protagonisti, era sotto il dominio spagnolo, ma a sua volta la Spagna, col suo re Filippo IV, faceva parte del Sacro Romano Impero, la cui capitale era Vienna, e l'imperatore era Ferdinando II d'Asburgo. Quindi, Spagna e Austria, con una parte della Germania, erano legate tra loro e alleate.

La Francia e la Repubblica di Venezia, invece, non facevano parte dell'impero, e Bergamo, che è a due passi da Milano, a quel tempo era territorio veneziano.

Anche il ducato di Mantova e il Monferrato erano sotto il dominio spagnolo ed erano governati dal duca Vincenzo Gonzaga. Costui però muore senza lasciare eredi, per cui la legittima successione spetterebbe a Carlo Gonzaga, duca di Nevers, spagnolo di casato, ma trapiantato in Francia (che come detto non fa parte dell'impero) e naturalizzato Francese. Questa cosa non piace, né al re di Spagna, né all'imperatore, e per questo essi impongono a Carlo Gonzaga di rinunciare all'eredità. Lui si rifiuta e si arriva allo scontro, così Mantova e il Monferrato diventano territori contesi. Dopo un primo assedio su Casale Monferrato, messo in atto dal governatore di Milano, Gonzalo, e andato a vuoto, un esercito di lanzichenecchi scenderà dalla Germania.

### _Nota 2)_

Il romanzo del Manzoni, scritto nella prima metà dell'800, apre con un lungo paragrafo, scritto in _corsivo_ e racchiuso tra "virgolette", in cui egli si cimenta in una complicata scrittura seicentesca, per poi dire che la pergamena da cui egli avrebbe tratto il suo romanzo, era scritta esattamente così, ma che lui, giudicando quello stile illeggibile e noioso, avrebbe deciso di riscrivere l'intera storia in un italiano più moderno. Questo paragrafo potrebbe essere lo scoglio contro cui l'entusiasmo del lettore rischia di incagliarsi, poiché il qui presente riscrittore, non ne ha cambiato neppure una virgola, per rispettare la volontà del Manzoni che, per l'appunto, voleva risultasse di difficile lettura e comprensione.

Va detto però che quel paragrafo non ha alcuna rilevanza narrativa e non vi è scritto nulla che abbia a che fare con la storia di Renzo e Lucia, è solo un modo del Manzoni per iniziare il suo libro, lasciatemi dire, scherzando sulla riscrittura…

Dal momento però, che l'intenzione del qui presente riscrittore è quella di rendere facile e scorrevole la lettura del romanzo, si consiglia di fare ciò che il Manzoni stesso consiglia in altra occasione, vale a dire: chi ha difficoltà, o non ha la pazienza, di leggere quella parte, può evitarlo, come si fa, appunto, con uno scoglio, per proseguire poi la propria navigazione in serenità. O meglio, può leggerne qualche riga all'inizio e qualcuna al fondo, tanto per farsene un'idea, per poi riprendere a leggere dopo le virgolette.

Forse è un suggerimento poco ortodosso che certamente non andrebbe dato se, come detto, nel capitolo ventiduesimo il Manzoni stesso non suggerisse la stessa cosa.

# INTRODUZIONE

Avevo cominciato, mio malgrado, a trascrivere un vecchio e sbiadito manoscritto che iniziava così:

"_L'Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl'anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia. Ma gl'illustri Campioni che in tal Arringo fanno messe di Palme e d'Allori, rapiscono solo che le sole spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando co' loro inchiostri le Imprese de Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggj, e trapontando coll'ago finissimo dell'ingegno i fili d'oro e di seta, che formano un perpetuo ricamo di Attioni gloriose. Però alla mia debolezza non è lecito solleuarsi a tal'argomenti, e sublimità pericolose, con aggirarsi tra Labirinti de' Politici maneggj, et il rimbombo de' bellici Oricalchi: solo che hauendo hauuto notitia di fatti memorabili, se ben capitorno a gente meccaniche, e di piccol affare, mi accingo di lasciarne memoria a Posteri, con far di tutto schietta e genuinamente il Racconto, ouuero sia Relatione. Nella quale si vedrà in angusto Teatro luttuose Traggedie d'horrori, e Scene di malvaggità grandiosa, con intermezi d'Imprese virtuose e buontà angeliche, opposte alle operationi diaboliche. E veramente, considerando che questi nostri climi sijno sotto l'amparo del Re Cattolico nostro Signore, che è quel Sole che mai tramonta, e che sopra di essi, con riflesso Lume, qual Luna giamai calante, risplenda l'Heroe di nobil Prosapia che pro tempore ne tiene le sue parti, e gl'Amplissimi Senatori quali Stelle fisse, e gl'altri Spettabili Magistrati qual'erranti Pianeti spandino la luce per ogni doue, venendo così a formare un nobilissimo Cielo, altra causale trouar non si può del vederlo tramutato in inferno d'atti tenebrosi, malvaggità e sevitie che dagl'huomini temerarij si vanno moltiplicando, se non se arte e fattura diabolica, atteso ché l'humana malitia per sé sola bastar non dourebbe a resistere a tanti Heroi, che con occhij d'Argo e braccj di Briareo , si vanno trafficando per li pubblici emolumenti. Per locché descriuendo questo Racconto auuenuto ne' tempi di mia verde staggione, abbenché la più parte delle persone che vi rappresentano le loro parti, sijno sparite dalla_

_Scena del Mondo, con rendersi tributarij delle Parche, pure per degni rispetti, si tacerà li loro nomi, cioè la parentela, et il medesmo si farà de' luochi, solo indicando li Territorij generaliter. Né alcuno dirà questa sij imperfettione del Racconto, e defformità di questo mio rozzo Parto, a meno questo tale Critico non sij persona affatto diggiuna della Filosofia: che quanto agl'huomini in essa versati, ben vederanno nulla mancare alla sostanza di detta Narratione. Imperciocché, essendo cosa evidente, e da verun negata non essere i nomi se non puri, purissimi accidenti_..."

Stavo appunto trascrivendo queste parole, quando mi è venuto un pensiero:

- Ma quando io avrò concluso l'eroica fatica di trascrivere questo sbiadito e lacero manoscritto e l'avrò, come si usa dire, dato alla luce, ci sarà qualcuno che avrà voglia di leggerlo? - Questa riflessione mi è nata mentre cercavo faticosamente di decifrare le parole scarabocchiate che seguivano ad "_accidenti_". Mi sono bloccato e ho iniziato a pensare più seriamente a cosa fosse meglio fare.

Scartabellando quei fogli, mi dicevo:

- Va bene che quella sfilza di concetti e di metafore non continua per tutta l'opera. Chi l'ha scritta ha voluto dare un saggio della sua abilità, poi però, andando avanti con il racconto, spesso per lunghi tratti, ha usato uno stile più naturale e più semplice. Purtroppo però il testo diventa poi dozzinale, volgare e anche sgrammaticato! Pieno di dialettismi lombardi, per lo più usati a sproposito. Anche la grammatica è arbitraria e le frasi sono spesso sgangherate. Per di più chi l'ha scritto, volendo sembrare raffinato, ha condito il tutto qua e là con un po' di spagnolo.

Ma c'è di peggio. Nei momenti più terribili o penosi della storia, forse per destare meraviglia e stupore, o per spingere il lettore a riflettere, in quei passaggi insomma dove si richiede una certa retorica, che dovrebbe però essere delicata, raffinata, di buon gusto, lo scrittore finisce per scivolare in una sua scrittura pomposa ed eccessiva.

In questo modo il racconto mescola qualità stilistiche opposte. Appare rozzo e al tempo stesso troppo lezioso. E questo nella stessa pagina, nello stesso paragrafo, nello stesso vocabolo. Così troviamo declamazioni altisonanti, in una mistura di frasi sballate, e ovunque c'è quel lessico goffo e ambizioso, tipico degli scritti di quel tempo. In conclusione non è roba che può essere data da leggere ai nostri tempi. I lettori oggi sono certamente smaliziati e detestano questo modo di narrare antico e stravagante.

Per fortuna questo pensiero mi è venuto proprio all'inizio di questo dannato lavoro e avevo già deciso perciò di lasciar perdere.

Poi però, mentre richiudevo quelle scartoffie per metterle via, un'altra idea ha preso il sopravvento: era un peccato che una storia così bella rimanesse sconosciuta. Magari chi avrà poi modo di leggerla se ne farà un'idea diversa, ma a me la storia in sé parve bella, anzi, molto bella.

Così pensai: – Perché non prendere dal manoscritto i semplici fatti e riscriverli in un linguaggio più adatto ai nostri tempi?

Ci pensai un momento e, non trovando un motivo ragionevole per non farlo, decisi di iniziare.

Ecco qui com'è nato il mio libro che racconta questa storia con molta semplicità.

Siccome alcuni dei fatti, o abitudini del tempo, descritti dal nostro autore sembravano stravaganti, strani, per non dire esagerati, prima di riportarli ho voluto confrontarli con altre testimonianze di quell'epoca. Così ho frugato in vecchie memorie e antichi documenti, per capire se veramente le cose, nel modo di allora, funzionassero davvero così.

La ricerca ha avuto buon esito e cancellato ogni dubbio. Scavando e frugando tra vecchie carte ho scoperto situazioni simili o addirittura ancora più strane. Ma c'è di più: in quei documenti ho anche ritrovato i nomi di alcune delle persone nominate nel manoscritto e che non credevo fossero davvero esistiti.

Perciò al momento opportuno citerò alcune di queste testimonianze, per dare credito a quelle situazioni che potrebbero sembrare troppo strane per noi e che il lettore potrebbe credere siano pura invenzione.

Ma, rifiutando lo stile insopportabile dell'autore, con quale stile potevo sostituirlo? Qui sta il punto.

Sono consapevole che chiunque rifaccia un'opera di qualcun altro, specialmente se non glielo ha chiesto nessuno, dovrà di certo rendere conto di ciò che ha fatto. Ne è obbligato per forza di cose. È una regola questa a cui non credo di potermi sottrarre neppure io. Anzi, accettandola di buon grado, mi sono proposto di spiegare dettagliatamente, i motivi delle mie scelte. Perciò ero intenzionato, via via che procedevo col lavoro, di anticipare tutte le possibili critiche che mi sarebbero state rivolte, per ribatterle anticipatamente. E non sarebbe stato difficile, perché, ad onor del vero, non mi è venuta in mente una sola critica che non arrivasse accompagnata da una risposta totalmente esauriente. Una di quelle risposte che non solo risolve ogni questione, ma le muta radicalmente.

Spesso poi, lasciando che due critiche facessero a botte tra loro, le vedevo eliminarsi a vicenda. Oppure esaminandole attentamente e valutandole a fondo, potevo dimostrare come due critiche apparentemente opposte, fossero in realtà della stessa natura. Potevo anche dimostrare che certe critiche non si fondavano su principi solidi e che sorprendentemente, mettendole assieme, assieme se ne andavano _a quel paese_.

Nessuna altro autore avrebbe mai provato con tanta evidenza di aver fatto bene le sue scelte.

Ma che dire? Quando ho cercato di raggruppare tutte le possibili osservazioni e le relative risposte, riordinandole in qualche modo - che il cielo mi fulmini! - c'era da farne un altro libro!

Così ho lasciato perdere tutte le spiegazioni. E l'ho fatto per due ragioni che il lettore troverà più che valide: la prima, è che scrivere un libro per giustificarne un altro, anzi lo stile di un altro, può sembrare cosa lievemente ridicola. La seconda è che di libri ne bastano uno per volta, quando quello non è già di troppo.

# CAPITOLO PRIMO

## _Incontro tra don Abbondio e i bravi e spiegazione di come i bravi fossero personaggi realmente esistiti._

# Quel
ramo del lago di Como, rivolto a mezzogiorno, tra due catene ininterrotte di monti, fatto di promontori e insenature a seconda che i monti si sporgano o rientrino, quasi d'improvviso si restringe, prendendo forma di fiume che scorre racchiuso tra un promontorio a destra e un'ampia costiera dall'altra parte. E il ponte, che lì congiunge le due rive, sembra rendere ancora più evidente quella trasformazione e segnare il punto in cui il lago termina e l'Adda ricomincia. Per poi riprendere il nome di lago laddove le rive, allontanandosi di nuovo, lasciano l'acqua distendersi e rallentare tra nuove insenature e nuovi promontori.

La costa, formata dai detriti scaricati da tre grossi torrenti, discende morbidamente appoggiandosi a due monti contigui, uno detto di S. Martino e l'altro, chiamato in lingua lombarda, il _Resegone_, per via dei sui cucuzzoli messi in fila che lo fanno somigliare a una sega. Infatti non c'è chi non lo distingua subito per la sua strana forma, in mezzo a quella lunga e ampia fila di vette, dagli altri monti di nome meno conosciuti e dalle forme più comuni. Specialmente se lo si guarda di fronte, ad esempio dalle mura di Milano rivolte a settentrione.

Per un bel tratto la costa sale con un pendio lieve e continuo, poi si spezza in poggi e valloncelli, in rive scoscese e in terrazze naturali, in base all'ossatura dei monti e al lavoro fatto dallo scorrere delle acque.

In basso, la costa, tagliata dalle foci dei torrenti, è fatta quasi solo di sassi e ciottoli. Per il resto sono campi e vigne, terreni sparsi di ville e di casali. In parte anche boschi che si protendono verso la montagna.

Lecco, la principale località della zona che dà anche il nome al territorio, giace poco lontano dal ponte e dalla riva, anzi in parte viene a trovarsi proprio sopra il lago, quando questo ingrossa, e oggi è un gran borgo che tende a diventare una città.

Ai tempi in cui accaddero i fatti che sto per raccontare, quel borgo era già piuttosto importante ed era anche una sorta di castello. Aveva perciò l'onore di alloggiare un comandante e il "piacere" di ospitare una stabile guarnigione di soldati spagnoli, per i quali le fanciulle e le donne del paese avevano ben imparato a non mettersi troppo in mostra. Di tanto in tanto, quei soldati, "accarezzavano" la schiena a qualche marito o a qualche padre e, quando finiva l'estate, non mancavano di andare per le vigne a "diradare" le uve e ad "alleggerire" i contadini dalle fatiche della vendemmia…

Dall'una all'altra di quelle terre, dalle alture alla riva, da un poggio ad un altro, c'era, e c'è anche oggi, un continuo saliscendi di strade e stradine. Alcune sono racchiuse tra due muri di pietra, al punto che alzando lo sguardo, non vi si scorge altro che un pezzetto di cielo e qualche cucuzzolo di monte. Altre invece sono elevate su terreni aperti. Da qui la vista spazia su panorami più o meno estesi, sempre ricchi e sempre con qualcosa di nuovo, che variano a seconda del punto in cui ci si trova e della vista che di lì si gode sul vasto paesaggio circondante. E i panorami mutano a seconda che si guardi a distanza o di scorcio, che una cosa o un'altra appaia o resti nascosta, che si scorga un pezzetto di lago piuttosto che un altro, o che si ammiri un ampio e variegato specchio d'acqua.

Di qua vi è il lago, racchiuso da un lato, o meglio, smarrito in un andirivieni di monti, che poi via via si allarga in mezzo ad altri monti che si aprono allo sguardo e che l'acqua riflette capovolti, coi paesetti posti sulle rive.

Di là vi è un braccio di fiume, che poi torna ad essere lago e dopo di nuovo fiume, e che va infine a perdersi in un lucido serpeggiare tra monti, i quali l'accompagnano degradando man mano, fino quasi a perdersi anch'essi, dietro l'orizzonte.

Il luogo stesso da cui si ammira quello spettacolo è esso stesso uno spettacolo. Il monte sotto cui state passeggiando, si apre sopra e intorno a voi, mostrandovi le sue cime e i suoi pendii, ad ogni passo sempre diversi e sempre straordinari e si allarga poi, arricchendosi di nuove vette che diramano da quella che vi era sembrata una sola e unica vetta, e lassù compare ciò che poco prima ammiravate sulla costa. La bellezza, l'ambiente curato dalla mano dell'uomo, attenua piacevolmente l'aspetto selvatico e fa da cornice alla magnificenza di altre vedute.

Per una di queste stradicciole, la sera del 7 novembre 1628, don Abbondio, parroco di uno dei paesetti sopra citati, se ne tornava bel bello dalla sua passeggiata verso casa (nel manoscritto non si trova né il nome del paese né il cognome del personaggio. Non si trovano lì, né li ho trovati altrove). Egli stava tranquillamente recitando le sue preghiere. Di tanto in tanto, tra un salmo e l'altro, richiudeva il breviario tenendovi in mezzo il dito della mano destra, a mo' di segnalibro, e messa poi questa nell'altra mano dietro la schiena, proseguiva il suo cammino guardando in terra. Calciava col piede, verso il muro, i sassi che nel sentiero facevano da inciampo, poi, alzato il viso e girato oziosamente gli occhi intorno, pose lo sguardo su una parte di un monte dove la luce del sole, ormai tramontato, infilandosi tra le valli del monte opposto, dipingeva qua e là sulle rocce sporgenti, larghe pennellate irregolari di porpora.

Aprì poi di nuovo il breviario e, recitandone un altro pezzetto, arrivò ad una curva del sentiero dove era solito alzare di nuovo gli occhi e guardare avanti. Così fece anche quel giorno. Passata la curva, la strada proseguiva diritta, forse un sessanta passi e poi si divideva in due, formando una "Y". Il sentiero di destra saliva verso il monte e portava alla casa del parroco, l'altro scendeva nella valle fino ad un torrente. In questo tratto, il muro arrivava solamente ai fianchi del viandante.

Là, dove il sentiero biforcava, i muri invece di unirsi e formare un angolo, terminavano in un'edicola votiva, su cui erano dipinte certe figure, lunghe e serpeggianti, che finivano a punta. Nelle intenzioni del pittore e agli occhi degli abitanti d'intorno, esse significavano "fiamme". Alternate alle fiamme vi erano altre figure difficili da descrivere ma che significavano "anime del purgatorio". Anime e fiamme di color rosso mattone, erano dipinte su un fondo grigiastro, in parte scrostato.

Il prete, svoltato la curva, alzò come d'abitudine lo sguardo verso l'edicola, ma questa volta vide qualcosa che non si aspettava e che nemmeno avrebbe voluto vedere.

Due uomini stavano uno di fronte all'altro, proprio dove confluivano, per così dire, le due stradicciole. Uno dei due era a cavalcioni del muro basso, con una gamba che penzolava fuori e l'altro piede poggiato sul terreno della strada. Il compare invece era in piedi, con la schiena contro il muro e le braccia incrociate sul petto. I vestiti, il loro modo di fare e ciò che era possibile vedere del loro aspetto da dove il parroco si trovava, non lasciavano dubbi a riguardo di chi fossero.

Entrambi avevano una reticella in testa che scendeva fin sul braccio sinistro e terminava con un grande fiocco di frange. Sulla fronte, un enorme ciuffo usciva dalla reticella e avevano due lunghi mustacchi arricciati in punta. Sui fianchi pendevano due pistole, attaccate ad una lucida cintura di cuoio mentre sul petto, simile a una collana, penzolava un piccolo corno contenente la polvere da sparo. Inoltre il manico di un gran coltellaccio sbucava da una tasca dei pantaloni ampi e rigonfi, era uno spadone con una gran guardia traforata di lamine d'ottone luccicante e lavorata a formare una lettera.

A colpo d'occhio si capiva subito che era gentaglia che apparteneva alla categoria dei "_bravi_".

Questa specie di personaggi, che ora non c'è più, era floridissima in Lombardia, con profonde radici nel tempo. Tanto per farvene un'idea, riporto alcuni episodi autentici, che rivelano gli sforzi compiuti per estinguerla, sforzi risultati però inutili, tanto che quella razza rimase forte e vigorosa.

Già in data 8 aprile 1583, l'Illustrissimo ed Eccellentissimo signor don Carlo d'Aragona, Principe di Castelvetrano, Duca di Terranova, Marchese d'Avola, Conte di Burgeto, grande Ammiraglio e Contestabile di Sicilia, Governatore di Milano e Capitano Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia essendo: "…_pienamente informato della intollerabile miseria in cui è vissuta e vive questa Città di Milano, per colpa di "bravi" e vagabondi"_ pubblicava un bando contro di essi: "…_tutti coloro che sono compresi in questo bando, che sono dei "bravi" o vagabondi… siano essi forestieri o della Città, i quali non hanno un'attività, o che avendola di fatto non la esercitano… e che, stipendiati o non stipendiati, si affiancano a qualche cavaliere o a un gentiluomo, ad un ufficiale o un mercante… per fargli favori e coprirgli le spalle, ma in realtà, come si può presumere, sono lì per insidiare altre persone_… A tutti questi ordina che nel giro di sei giorni lascino la città, pena la galera per coloro che non obbediscono. Poi lascia agli ufficiali di giustizia le più stranamente ampie e indefinite facoltà per eseguire l'ordine.

Ma esattamente un anno dopo, il 12 aprile, costui rendendosi conto che: "…_questa Città è ancora piena di questi "bravi"… tornati a vivere come prima, con gli stessi metodi, solamente ridotti un po' di numero_" emette un nuovo bando, più severo e rigoroso, nel quale tra gli altri ordini si legge: "_Che qualsivoglia persona, di questa Città o forestiera, venga riconosciuta da due testimoni come un "bravo" e che abbia questa reputazione anche se non sia comprovabile l'aver effettivamente commesso delitti… per la sola sua reputazione di "bravo", senza bisogno di altre prove, venga mandato davanti ai giudici e torturato per ricavargli informazioni… e anche se non confessa nessun delitto, sia messo a remare nelle galee per tre anni, per la sola reputazione di "bravo" di cui sopra_." Tutto ciò, oltre al resto che non ho trascritto, perché: "_Sua Eccellenza è decisa nel voler essere obbedita da chiunque_."

Nel sentire queste parole, dette da un cotanto autorevole personaggio, così gagliarde, decise e accompagnate da ordini così drastici, siamo fortemente tentati di credere che al solo risuonare di esse, tutti i _bravi_ siano scomparsi per sempre.

Però la testimonianza di un altro signore, non meno autorevole e con titoli non meno altisonanti, ci riporta a una realtà ben diversa. Costui è l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Juan Fernandez de Velasco, Contestabile di Castiglia, Cameriero maggiore di Sua Maestà, Duca della città di Frias, Conte di Haro e Castelnovo, Signore della Casa di Velasco e di quella dei sette Infanti di Lara, Governatore dello Stato di Milano, ecc, ecc. Il 5 giugno dell'anno 1593, anche lui pienamente informato "_di che danno e rovina siano… i bravi e i vagabondi e di che problema rappresenti questa gentaglia per il bene pubblico ed eludendo la giustizia_," di nuovo intima ad essi che, entro sei giorni, sgombrino dal paese. Poi ripete le medesime prescrizioni e intimidazioni del suo predecessore.

Ma ancora il 23 maggio del 1598, _"essendo venuto a conoscenza, con il più profondo dispiacere, che… in questa Città e Stato, va crescendo sempre più il numero di questi tipi (bravi e vagabondi) e che di essi, giorno e notte, non si sente altro che di ferite inflitte intenzionalmente, di omicidi e furti e di ogni altro tipo di delitti, resi ancor più facili dall'essere aiutati, questi "bravi" dai loro capi e protettori_…" prescrive di nuovo la stessa ricetta, aumentandone la dose, come si fa con le malattie ostinate. "_Ognuno dunque_" conclude infine "_si guardi bene dal contravvenire anche solo in parte al presente bando, perché invece di trovare clemenza in Sua Eccellenza, troverà il suo rigore e la sua ira… essendo risoluta e decisa a far sì che questo sia l'ultimo e definitivo ammonimento_".

Ma meno di due anni dopo, non era di questo parere l'illustrissimo ed eccellentissimo Signore, il Signor Don Pietro Enriquez de Acevedo, Conte di Fuentes, Capitano e Governatore dello Stato di Milano, e aveva le sue buone ragioni: "_Pienamente informato della miseria in cui vive questa Città e Stato per colpa del gran numero di bravi che in esso abbonda… e deciso ad estirpare una volta per sempre un simile seme tanto malefico_…" il 5 dicembre 1600 emette un bando anche questo pieno di severissime disposizioni, "…_con fermo proponimento che con massimo rigore e senza speranza di indulgenza alcuna, siano puntualmente eseguite_."

Dobbiamo però credere che costui non ci mise tutto l'ardore che impiegò nell'ordire intrighi e nell'aizzare nemici contro il suo maggior nemico, Enrico IV. Infatti a tal proposito, la storia ci narra di come riuscì a convincere il Duca di Savoia a muovere le armi contro quel re, facendogli poi perdere più di una città. Di come fece congiurare il Duca di Bairon, che ci rimise la testa. Ma per quanto riguardava il seme tento malefico dei _bravi_ quello continuava a germogliare ancora il 22 settembre dell'anno 1612, data in cui l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Giovanni de Mendozza, Marchese de la Hyonjosa, Gentiluomo ecc., Governatore ecc., pensò seriamente di estirparlo. A tal proposito inviò a Pandolfo e a Marco Tullio Malatesti, regi stampatori camerali, il solito bando, corretto e rafforzato, perché lo stampassero a sterminio dei _bravi_.

Ma questi vinsero ancora, per ricevere il 24 dicembre del 1618, i colpi ancora più duri dell'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Gomez Suarez de Figueroa, Duca di Feria, ecc., Governatore ecc.,

Però non essendo morti neppure per questo, l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Gonzalo Fernandez di Cordova, sotto il cui governo avvenne la passeggiata di don Abbondio, il giorno 5 del mese di ottobre dell'anno 1627, era stato costretto a correggere e a ripubblicare nuovamente il solito bando contro i _bravi_. Vale a dire un anno, un mese e due giorni prima del nostro memorabile avvenimento.

E non fu nemmeno questo l'ultimo decreto, ma di quelli che seguirono non è il caso di parlarne, giacché non rientrano nel periodo della storia che stiamo raccontando.

Accenneremo solo più ad uno di essi, del 13 febbraio 1632, nel quale l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, "_et Duque de Feria_" per la seconda volta Governatore, ci avvisa che "_le maggiori scelleraggini siano fatte da quelli che chiamano "bravi"_". Questo basta a farci comprendere che, nel periodo di nostro interesse, di _bravi_ ce n'erano certamente ancora.

Che i due sopra descritti, stessero aspettando qualcuno, era fin troppo evidente. Ma quel che dispiacque a don Abbondio fu di dover constatare, da certi comportamenti, che l'aspettato era proprio lui. Infatti, al suo apparire, i due si erano guardati in viso, avevano sollevato la testa con un movimento da cui si capiva che si erano detti: "è lui." Quello che stava a cavalcioni si era alzato mettendo la gamba sulla strada, l'altro si era staccato dal muro ed entrambi ora gli andavano incontro. Improvvisamente fu assalito da mille pensieri.

Prima di tutto si domandò se tra lui e quei bravi c'era qualche scappatoia a destra o a sinistra. Ma si rese subito conto che no, non ce n'erano. Subito dopo fece un rapido esame di coscienza per capire se avesse in qualche modo peccato contro qualche potente, qualche vendicativo. Ma, anche se era molto agitato, la sua coscienza tendeva a rassicurarlo.

I bravi intanto si avvicinavano fissandolo. Mise l'indice e il medio della mano sinistra nel collare come per sistemarlo e, girando le dita intorno al collo, volgeva il viso all'indietro, torcendo la bocca, per sbirciare con la coda dell'occhio fin dove poteva, e capire se dietro di lui c'era qualcun'altro che arrivava. Non vide nessuno.

Diede un'occhiata al di sopra del muretto, verso i campi. Nessuno. Un'altra occhiata, più prudente, la diede alla strada davanti. Nessuno, soltanto i bravi.

Che fare? Tornare indietro non poteva più. Darsela a gambe, era come dire "prego, inseguitemi" o peggio.

Non potendo schivare il pericolo, decise di affrettarne l'incontro, perché il tempo che passava in quell'incertezza gli era insopportabile e desiderava solo accorciarlo. Affrettò il passo recitando un salmo a voce un po' più alta, si sforzò di fare il viso più sereno e gioioso che poté e fece ogni sforzo per prepararsi a sorridere. Quando fu di fronte ai due gentiluomini, disse tra sé: "ci siamo" e si fermò.

"Signor curato" attaccò uno dei due, piantandogli lo sguardo dritto in faccia.

"Cosa desidera?" rispose subito don Abbondio, staccando gli occhi dal libro che gli rimase spalancato nelle mani come su di un leggio.

"Lei ha intenzione" proseguì l'altro, con quel fare minaccioso e iracondo di chi sorprende un suo sottoposto che sta per combinare una balordaggine, "lei ha intenzione di maritare domani, Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!"

"Ma no…" rispose con voce tremante don Abbondio, "voglio dire, lor signori sono uomini di mondo, sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero parroco non centra nulla… quelli fanno i loro pasticci tra di loro e poi… e poi vengono da noi, come si andrebbe a riscuotere il salario. E noi… noi siamo solo dei servitori della comunità."

"Mi ascolti bene," gli disse il bravo all'orecchio, ma con tono solenne di comando "questo matrimonio non s'ha da fare, ne domani ne mai!"

"Ma signori miei," replicò don Abbondio con voce calma e mansueta di chi cerca di convincere qualcuno che è agitato, "ma signori miei, vi prego di mettervi nei miei panni. Se fosse per me… sapete bene che a me non ne viene nulla in tasca."

"Orbene" tagliò corto il bravo, "se la cosa si decidesse a chiacchiere, staremmo qui un secolo. A noi non interessa e non intendiamo più parlarne. Uomo avvisato… ci siamo capiti, no?"

"Ma certo, è fin troppo giusto e anche troppo ragionevole ma…"

"Ma…" lo interruppe l'altro compare che fino ad allora non aveva parlato, "ma il matrimonio non si farà, o…" e qui tirò giù una gran bestemmia, "o chi lo farà, non se ne pentirà solo perché non ne avrà il tempo, e…" giù un'altra bestemmia.

"Zitto, zitto" riprese l'altro, "il signor parroco è un uomo che sa stare al mondo, noi siamo galantuomini e non intendiamo fargli del male. Basta che abbia giudizio. Signor curato, il signor don Rodrigo, nostro padrone, la riverisce caramente."

Questo nome esplose nella mente di don Abbondio come un fulmine nel bel mezzo di un violento temporale, che illumina per un attimo e in modo confuso gli oggetti e amplifica il terrore.

Istintivamente fece un gran inchino e disse: "Se loro sapessero suggerirmi…"

"Oh, noi suggerire a lei, che sa anche il latino!" lo interruppe di nuovo il bravo, con una risata tra lo sguaiato e il feroce. "Sta a lei! E soprattutto, per il suo bene, non si lasci sfuggire una parola di questo avviso che le abbiamo dato, altrimenti… ehm… sarebbe lo stesso che fare quel matrimonio… Ebbene, cosa dobbiamo riferire all'Illustrissimo signor don Rodrigo?"

"I miei rispetti…"

"Sarebbe a dire?"

"…Disposto… disposto ad obbedire, sempre." proferendo queste parole non sapeva neppure lui se intendeva fare una promessa o un complimento. I bravi le intesero, o mostrarono di intenderle, nella maniera più seria.

"Benissimo! E buona notte signore." disse uno di loro mentre si allontanava con il compagno.

Don Abbondio, che un attimo prima avrebbe dato un occhio per scansarli, ora avrebbe voluto prolungare la conversazione e la trattativa.

"Signori…" attaccò, chiudendo il libro con le due mani, ma quelli senza dargli ascolto si avviarono per strada da cui lui era arrivato e, allontanandosi, intonarono una canzonaccia che preferisco non trascrivere.

Il povero don Abbondio rimase un momento come incantato, con la bocca aperta. Poi si incamminò sulla stradina che conduceva a casa sua, mettendo a stento una gamba davanti all'altra, come fossero rattrappite.

Don Abbondio (il lettore l'avrà subito capito) non era nato con il cuore di leone. Fin dai suoi primi anni aveva dovuto comprendere che, a quel tempo, la condizione peggiore era quella di un animale senza artigli e senza zanne, che però, allo stesso tempo, non aveva nessuna voglia di farsi sbranare.

La forza della legge non proteggeva in alcun modo l'uomo tranquillo, inoffensivo, senza i mezzi necessari per far paura agli altri. Non che mancassero leggi e pene contro le violenze private. Di leggi ce n'erano a bizzeffe. I delitti erano elencati, dettagliati, descritti minutamente. Le pene erano follemente esorbitanti e, se non bastava, potevano essere aumentate quasi in ogni caso, ad arbitrio del legislatore stesso e della moltitudine di esecutori. Le procedure erano studiate apposta per liberare il giudice da tutto ciò che poteva impedirgli di proferire una condanna. Gli stralci che abbiamo riportato dei bandi contro i _bravi_, sono solo un piccolo, ma fedele saggio.

Con tutto questo, anzi, proprio per questo, quegli editti ripubblicati e rafforzati di governo in governo, non servivano ad altro che ad attestare l'impotenza dei loro autori. E se producevano qualche effetto, era soprattutto di aggiungere altre vessazioni a quelle che le persone pacifiche e deboli, già subivano dai prepotenti, accrescendo la violenza e l'astuzia di quest'ultimi.

L'impunità era organizzata e aveva radici che nessun bando poteva toccare né smuovere.

Le scappatoie e i privilegi di certe classi erano molti, in parte riconosciuti dalla legge stessa, in parte tollerati con silenzio ostile, o denunciati con finte proteste, ma di fatto difesi da quelle stesse classi, per il loro interesse e con gelosia di appartenenza.

E quell'impunità, minacciata e ferita, ma non colpita a morte dai bandi, ad ogni nuova minaccia e ad ogni nuovo colpo, doveva per forza di cose accrescere gli sforzi e trovare nuove idee per mantenersi viva e vitale.

Ed era effettivamente così. All'apparire degli editti con cui si intendeva reprimere i violenti, questi trovavano nuove risorse per continuare a fare ciò che quei decreti avrebbero voluto proibire. In definitiva riuscivano solo a creare problemi alle persone semplici, deboli e senza protezione, perché con l'intenzione di tenere sotto controllo tutti, per prevenire o punire ogni delitto, assoggettavano ogni azione del cittadino comune, al volere arbitrario di coloro che dovevano far rispettare la legge, chiunque essi fossero.

In realtà, chi prima di compiere un'azione criminale aveva preso le sue precauzioni per rifugiarsi in tempo in un convento o in un palazzo nobiliare, dove gli sbirri si sarebbero ben guardati dall'entrare, oppure chi apparteneva a un casato e godeva della protezione della sua potente famiglia, se non di tutto il suo ceto, era libero di far quello che gli pareva e poteva ridersela del baccano fatto da quei bandi.

Inoltre, alcuni di quelli che erano incaricati di farli rispettare, appartenevano per nascita alla classe privilegiata e altri ne dipendevano per clientelismo. Questi e quelli, vuoi per interesse, vuoi per abitudine, vuoi perché così avevano imparato a fare, o per imitazione, ne condividevano le regole e si sarebbero ben guardati dal contraddirle per amor di un pezzo di carta attaccato agli angoli dei muri.

E se anche gli uomini incaricati di far rispettare le leggi, fossero stati solerti fino all'eroismo, ubbidienti come monaci e pronti a sacrificarsi come dei martiri, non l'avrebbero comunque avuta vinta, inferiori com'erano di numero rispetto a quelli da sottomettere. In più, probabilmente, sarebbero stati lasciati soli proprio da chi, solo in teoria, imponeva loro di agire. Anzi, proprio tra questi s'annidavano i peggiori farabutti. Inoltre l'attività di quei poveretti incaricati di far rispettare le regole, era disprezzata da quegli stessi che avrebbero dovuto temerli e il loro incarico era considerato spregevole.

Era perciò naturale che questi invece di rischiare, anzi di buttare la loro vita in un'impresa disperata, vendessero ai potenti il loro chiudere entrambi gli occhi, il loro favoreggiamento. Riservandosi di esercitare la loro autorità e la forza, che pure avevano, solo in quelle occasioni in cui di pericoli non ce n'erano, opprimendo e vessando quindi, solamente persone pacifiche e indifese.

Colui che vuole far del male, o teme a sua volta di subire malversazioni, cerca ovviamente alleati e compagni. Perciò a quel tempo, vi era la tendenza a raggrupparsi in corporazioni, a formarne di nuove e ognuno si sforzava di accrescere la forza della compagine a cui apparteneva.

Il clero stava attento a difendere, cercando semmai di accrescere, le proprie impunità, la nobiltà difendeva i suoi privilegi, i militari le loro esenzioni. I mercanti e gli artigiani si raggruppavano in associazioni e confraternite, gli avvocati in una lega, i medici in una corporazione. Ognuna di queste piccole oligarchie aveva una sua forza. In ciascuna di queste, il singolo individuo poteva sfruttare a proprio personale vantaggio, a seconda della propria autorità e abilità, le forze unite di molti. I più onesti si avvalevano di questo vantaggio soltanto per difendersi. Quelli astuti e facinorosi invece, ne approfittavano per ordire faccende losche, che solamente con i loro mezzi personali, non sarebbero riusciti a mettere in atto. E anche per assicurarsi l'impunità.

Le forze di queste varie corporazioni erano molto disuguali e, soprattutto nella campagna, un nobile facoltoso e violento, attorniato da uno stuolo di bravi e da una popolazione di contadini che per tradizione di famiglia, per interesse personale, oppure costretti, si comportano quasi come dei sudditi o come dei soldati al servizio del loro padrone, deteneva un potere a cui difficilmente un'altra fazione poteva resistervi.

Il nostro don Abbondio, non nobile, non ricco, meno che mai coraggioso, si era reso conto molto bene e ancora prima di arrivare all'età del buon senso, d'essere in quella società come un vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva perciò ubbidito di buon grado ai genitori, che volevano si facesse prete. A dire il vero non aveva pensato molto agli obblighi e ai nobili fini del ministero a cui si sarebbe dedicato: trovare il modo di vivere con qualche agio e sistemarsi in una classe riverita e potente, gli erano sembrate due ragioni più che sufficienti per quella scelta.

Ma una classe, qualunque essa sia, non protegge mai il singolo individuo e non lo rassicura che fino a un certo punto. Nessuno viene perciò dispensato dal doversi creare un suo sistema personale. Don Abbondio, che pensava solo alla propria tranquillità, non si curava di quei vantaggi, perché erano troppo difficili da ottenere e per essi occorreva impegnarsi molto o arricchirsi un poco. Il suo sistema consisteva soprattutto nello scansare tutte le controversie e nel cedere a quelle che non poteva schivare, nel mantenere una neutralità disarmata in tutte le guerre che gli scoppiavano intorno, dalle contese, allora molto frequenti, tra il clero e le autorità laiche, tra le autorità militari e quelle civili, tra nobili e nobili, fino alle questioni tra contadini, nate da una parola e risolte a pugni o a coltellate. Se proprio era costretto a prendere le parti di qualcuno, stava con i più forti ma in retroguardia, assicurandosi di far sapere all'altra parte che non era molto contento di essergli nemico. Sembrava quasi volergli dire: "Ma perché non siete stati capaci di essere voi i più forti che io mi sarei volentieri schierato dalla vostra!"

Stando alla larga dai prepotenti, tollerando le loro vessazioni passeggere e capricciose, accettando la sottomissione in determinate situazioni, costringendo a forza di inchini e di gioviale rispetto, anche i più burberi e sdegnosi a fargli un sorriso quando li incontrava per la strada, il poveretto era riuscito a passare i sessant'anni senza particolari burrasche.

Comunque anche lui aveva un po' di fiele in corpo. Quel suo continuo portar pazienza, quel dare troppo spesso ragione agli altri, i tanti bocconi amari inghiottiti in silenzio, l'avevano esasperato al punto che, se non si fosse un po' sfogato anche lui, la sua salute ne avrebbe risentito. E giacché c'erano persone intorno a lui che erano incapaci di fare male a una mosca, sfogava su di esse il suo malumore troppo lungamente represso. Così ogni tanto si toglieva pure lui la voglia di dare di matto, sbraitando a torto.

Inoltre era molto critico verso le persone che non si comportavano come lui, ma solo quando non vi era, neppure lontanamente, il più piccolo rischio che la sua critica lo mettesse in pericolo.

Il bastonato come minimo era stato un imprudente, l'ammazzato era sempre stato un uomo che sguazzava nel torbido. A colui che si era opposto a un potente per difendere le proprie ragioni e si era ritrovato con la testa fracassata, don Abbondio sapeva sempre come attribuirgli qualche tipo di torto. Cosa non difficile visto che ragione e torto non sono mai così nettamente separati, che le parti non hanno mai solo di questo o solo di quella.

Soprattutto sentenziava poi contro quei suoi confratelli che, a loro rischio, prendevano le parti di un debole oppresso da un prepotente. Definiva ciò un "comprarsi i problemi in moneta sonante", un "voler raddrizzare le gambe ai cani". Lo definiva anche e seriamente "un immischiarsi in faccende profane a danno della dignità del loro sacro ministero".

Però ad essi faceva la predica solamente quando erano soli o in un gruppetto ristretto di persone. E più sapeva che quelle persone non se la sarebbero presa troppo per la cose che li riguardavano, tanto più lui ci metteva impeto. Aveva anche una sua personale sentenza con cui amava concludere quel genere di discorsi: "a una persona per bene, che badi agli affari suoi e sappia stare al suo posto, non accadono mai incontri spiacevoli".

Provate ora a pensare miei cari lettori, che immagino non sarete più di venticinque, che segno ha lasciato l'incontro con quei due, nell'animo del nostro povero don Abbondio. Lo spavento per quelle brutte facce, per le parolacce e per la minaccia di un signore, famoso per essere uno che non minaccia a caso. Il suo tanto ricercato _quieto vivere_, che gli era costato anni di studio e pazienza, crollato in un attimo! E quella scadenza troppo vicina per trovare il modo di uscirne indenni. Un mare di pensieri tumultuosi si agitavano ora nel capo chino di don Abbondio:

- Renzo non è uno che si fa liquidare con un bel: non se ne fa nulla! Figurarsi, vorrà delle ragioni. E io santo cielo, che posso dirgli? E, e, e… anche lui è una testa: un agnello se non lo si tocca, ma se lo si contraddice… levati! E poi, e poi… perduto dietro a quella Lucia, innamorato come… ragazzacci, che non sapendo più cosa fare, s'innamorano, vogliono sposarsi e non pensano ad altro. Figurarsi se ci pensano ai problemi in cui cacciano un povero parroco. Povero me, ma proprio sulla mia strada dovevano piantarsi quei due e prendersela con me? Cosa c'entro io? Mica sono io quello che vuole maritarsi! Potevo dire a quei due di andare piuttosto a parlare con… Che sfortunato che sono, le cose mi vengono sempre in mente un attimo dopo il momento giusto. -

Ma a questo punto il nostro prete si accorse che pentirsi di non aver consigliato come perpetrare meglio un atto malvagio, sarebbe stato davvero una malvagità.

Perciò diresse tutta la sua stizza contro quello che gli aveva tolto la pace. Conosceva don Rodrigo solo di nome e di vista, ma non aveva mai avuto a che fare con lui, se non per toccarsi il petto con il mento nel riverirlo, o per toccare la terra con la punta del suo cappello quando gli s'inchinava davanti, quelle poche volte che l'aveva incontrato per strada.

Gli era capitato, in più di un'occasione, di difendere la reputazione di quel signore contro chi, sospirando a bassa voce e alzando gli occhi al cielo, malediceva qualche sua malefatta, mentre lui sosteneva fosse un rispettabile cavaliere.

Ma in quel momento, in cuor suo, lo caricò di tutti gli appellativi che non aveva mai udito attribuirgli da nessun altro, senza metterci in mezzo un _amen_.

Giunto che fu alla porta di casa sua, che stava in fondo al paesello, sopraffatto da mille pensieri, mise in fretta nella toppa la chiave che già teneva in mano. Aprì, entrò e richiuse con cautela.

Ansioso di ritrovarsi in compagnia di una persona fidata, si affrettò a chiamare:

"Perpetua! Perpetua!"

E si avviò nel salotto dove quella sicuramente stava già apparecchiando la tavola per la cena.

Perpetua era, com'è facile immaginare, la serva di don Abbondio: fedele e affezionata. Che sapeva ubbidire e comandare, a seconda dell'occasione. Che sapeva sopportare, quando era il momento, i brontolii e le balordaggini del padrone e, all'occasione fargli sopportare i propri, che diventavano ogni giorno più frequenti da dopo che aveva superato i 40 anni, l'età prestabilita per essere una perpetua. Era rimasta nubile per aver rifiutato tutti i partiti che le si erano offerti, almeno così diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la prendesse in moglie, che è quello che dicevano le sue amiche.

"Vengo" rispose posando sul tavolo al solito posto, il fiaschetto del vino preferito di don Abbondio e si avviò lentamente. Non aveva ancora toccato la soglia del salotto, che lui entrò con un passo così affaticato, con uno sguardo così adombrato, con il viso così stravolto, che non sarebbero stati necessari neppure gli occhi esperti di Perpetua, per capire a prima vista che era successo davvero qualcosa di terribile.

"Misericordia! Cos'ha signor padrone?"

"Niente, niente." rispose don Abbondio lasciandosi cadere sulla sua poltrona con lo sguardo assente.

"Come niente?! Vuole darla ad intendere a me, con quella faccia? Qualcosa di brutto è successo di sicuro."

"Per amor del cielo! Se dico niente è niente… oppure è qualcosa che non posso dire."

"Che non può dire neppure a me? Chi si prenderà cura della sua salute? Chi le darà un parere…?"

"Povero me! Taci e non perdere altro tempo ad apparecchiare. Dammi solo un bicchiere del mio vino."

"E lei vuole convincermi che non ha niente!" disse Perpetua riempiendo il bicchiere e tenendolo poi in mano come se volesse darglielo solo come premio per la confidenza che si faceva tanto aspettare.

"Dammi qua, dammi qua." disse don Abbondio prendendole il bicchiere con la mano tremolante e vuotandolo poi in fretta come se fosse stata una medicina.

"Cosa vuole dunque, che io sia costretta ad andare in giro a chiedere cosa le è accaduto?" disse Perpetua dritta davanti a lui, con le mani rovesciate sui fianchi e i gomiti puntati in avanti, fissandolo come se volesse succhiargli il segreto dagli occhi.

"Per amor del cielo! Non fare pettegolezzi, non spargere la voce! Ne va… ne va della mia vita!"

"La vita?!"

"La vita!"

"Lei sa bene che quando mi ha detto delle cose in sincerità e in confidenza, io non ho mai…"

"Brava! Come quando…"

Perpetua si accorse di aver toccato un tasto falso e cambiò subito discorso:

"Signor padrone" disse con voce commossa e in grado di commuovere "io le sono sempre stata affezionata, se voglio sapere, è solo perché sono premurosa, perché vorrei aiutarla, darle un buon consiglio, sollevarle l'animo…"

Sta di fatto che don Abbondio aveva tanta voglia di liberarsi del suo doloroso segreto, almeno quanto ne avesse Perpetua di conoscerlo. Perciò dopo aver respinto, sempre più debolmente gli attacchi di lei, dopo averle fatto giurare più volte che non ne avrebbe parlato ad anima viva, finalmente, con molte sospensioni e molti _ahimè_ le raccontò il miserabile caso. Quando dovette pronunciare il nome del mandante fece di nuovo giurare

Perpetua, con un giuramento ancora più solenne. E dopo aver proferito quel nome, don Abbondio si accasciò sulla spalliera della seggiola con un gran sospiro, sollevò le mani in un atto di comando e insieme di supplica e disse:

"Per amor del cielo!"

"Accidenti!" esclamò Perpetua "Ma che villano! Ma che prepotente! Ma che uomo senza timor di Dio!"

"Vuoi tacere? O vuoi rovinarmi del tutto?"

"Ma se siamo soli e nessuno ci sente. Piuttosto, come farà ora, povero il mio padrone."

"Ecco là" disse don Abbondio con voce stizzita "eccoli i buoni consigli che mi da questa! Mi chiede come farò, come farò… quasi fosse lei nei pasticci e fossi io a dovercela tirare fuori."

"Ma, io ce l'avrei un consiglio da darle! Però poi…"

"Però poi? Sentiamo."

"La mia idea sarebbe che, siccome tutti dicono che il nostro arcivescovo è un sant'uomo, un uomo di polso, che non ha paura di nessuno e quando può mettere in riga uno di quei prepotenti per sostenere un curato, ne è ben felice, io direi, anzi dico, di scrivergli una bella lettera per informarlo di com'è che…"

"Vuoi tacere? Vuoi tacere?! Sarebbe questo il buon consiglio per un pover'uomo. Quando mi pianteranno una bella schioppettata nella schiena, Dio me ne scampi, l'arcivescovo me la leverà?!"

"Ma su, le schioppettate mica si danno via come dolcetti. Guai se i cani mordessero ogni volta che abbaiano! Io ho sempre visto che a chi sa mostrare i denti e si fa stimare, gli si porta rispetto. Proprio perché lei non si fa mai le sue ragioni, siamo ridotti al punto che tutti si sentono in diritto di venire qui a…"

"Ma basta!"

"Va bene, sto zitta, però è certo che quando il mondo si accorge che uno, ad ogni disputa, è sempre pronto a calar le…"

"Stai zitta! Ti sembra il caso di dire simili fesserie?!"

"Basta così, ci ripenserà questa notte. Per adesso eviti di farsi del male da solo e di rovinarsi la salute, mangi un boccone."

"Ci penserò io," rispose brontolando don Abbondio "sicuro, io ci penserò, sono io quello che ci deve pensare." si alzò "Non mi va di mangiare niente di niente. Ho altro per la testa, lo so che sono io che quello ci deve pensare. Ma proprio a me doveva capitare?"

"Butti almeno giù quest'altro goccetto" disse Perpetua versandogli dell'altro vino "sa che questo le rimette sempre in sesto lo stomaco."

"Magari! Ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro." Così dicendo prese il lume e continuò brontolando:

"Che stupida storia! A un galantuomo come me! E domani cosa succederà?"

Proseguendo con simili lamentele si avviò per salire in camera. Giunto sulla soglia si girò indietro verso Perpetua, mise il dito davanti alla bocca e con tono lento e solenne disse:

"Per amor del cielo!" E scomparve.</text>
     
 
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