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l cielo si tinse con due nuvole di colore giallo e azzurro.
«Quindi, che ne pensi di loro?» chiese l’azzurra con voce femminea e delicata.
«Mi piacciono» rispose la gialla con un tono più rude. «Sono perfette per questa missione.»
«Ma questa non è la solita missione» gli ricordò l’azzurra.
«Lo so, e perciò sarà più interessante» ghignò.
L’azzurra sorvolò la gialla per osservare al meglio la città.
«Sono così piccole… saranno pronte?»
«Sai che non è l’età a fare la differenza. Anzi, la loro giovinezza può essere un punto a favore.»
L’azzurra si rimise accanto la gialla.
«D’accordo, abbiamo indugiato abbastanza. Sto per dare agli altri la conferma di inizio missione.»
«Vai, vai» l’esortò la gialla, ridendo, «ormai ho deciso. La mia prossima Jeiin sarà…»

«Maria Donati» chiamò la professoressa d’italiano.
Una ragazza dal viso angelico si avvicinò alla cattedra con calma e sicurezza. Si fece dare il compito dalla professoressa e, scorgendo il voto, tornò a posto con quel suo solito sorrisetto altero stampato sulle labbra.
E con questo termina la giornata, pensò, voltandosi alla finestra. Ancora un’ora, e sarebbe andata a casa con un pomeriggio tutto per sé. Niente compiti o interrogazioni da preparare per l’indomani, visto che sarebbe stata domenica. E nessun corso o lavoretto part-time in programma. Poteva approfittarne per concedersi un’uscita con i suoi amici, leggere un romanzo o, semplicemente, per anticiparsi i compiti dei prossimi giorni. In qualunque caso, poteva finalmente rilassarsi, ed era questo ciò che contava.
Un colpetto al capo la riportò al presente. Maria strizzò gli occhi e le labbra di riflesso. Si voltò, ritrovandosi il volto della compagna di banco puntato addosso.
«Sempre con la testa fra le nuvole?»
«Scusami Giusy, non tutte le ragazze hanno la testa vuota come la tua.»
«E non tutte hanno la sfacciataggine di ignorare la propria compagna di banco, non chiedendole com’è andato il compito.»
Giusy non era solo la compagna di banco di Maria, ma anche la sua migliore amica, fin dai tempi delle elementari. Condividevano lo stesso banco da oltre dieci anni ma, nonostante ciò, erano estremamente diverse, a cominciare dall’aspetto che rendeva l’una la nemesi dell’altra: Maria aveva dei capelli castano scuro, lisci e lunghi fin sotto le spalle, Giusy una riccia e limpida chioma dorata; gli occhi di Maria erano marroni dal profondo, quelli di Giusy verdi d’un chiaro evanescente; la pelle di Maria cerea e pallida, quella di Giusy più rosa e florida; Maria piatta con un fisico a grissino, Giusy formosa e armoniosa.
Maria trattene uno sbuffo, vedendosi costretta a lasciare la sua spensierata occupazione con Giusy che non accennava a fermare le mani, ora intente a tamburellarle spalla e braccio. Si girò dall’amica con un sorriso asciutto; chiuse gli occhi e sollevò le sopracciglia, quasi per assumere un’aria di indifferenza e superiorità.
«Come ti è andato il compito?»
«Perché dovrei dirtelo?» Giusy si mise a ridere.
Maria fece per voltarsi nuovamente, ma Giusy le mostrò prontamente il foglio. Un otto.
«Complimenti» le disse Maria, «continua così e vedrai che presto sarai al mio livello.»
«Ci puoi scommettere» rispose Giusy ironica.
«Ora, se vuoi scusarmi…»
Maria si voltò di nuovo alla finestra, senza curarsi di Giusy che le rivolse uno sguardo affilato. Non le andava di stare a sentire gli errori che la sua amica, anche questa volta, aveva commesso o, tantomeno, le sue lamentele sul perché non prendesse mai un voto più alto. Voleva solo rilassarsi, senza faticare la mente.
La giornata era terminata. L’aveva detto.
Ma Giusy non era dello stesso parere.
«Capito, Maria?» le ripeté Giusy, uscendo da scuola. «Se avessi scelto l’altra traccia di filosofia, avrei fatto un compito perfetto!»
Maria annuì meccanicamente, come stava facendo da mezz’ora.
«Ehi, mi stai ascoltando?»
Maria annuì di nuovo, sempre intenta a smanettare sul cellulare.
Giusy, di risposta, si sfilò lo zaino e lo mise sopra le braccia dell’amica; Maria per poco non faceva cadere il cellulare dalle mani.
«Cosa c’è, Giusy?»
«Come punizione per avermi ignorata» proclamò spocchiosa, «porterai il mio zaino per tutto il tragitto.»
«Ai suoi ordini.»
Maria lo tenne con sé per qualche metro sino a che, passando accanto a una panchina, ve lo lasciò cadere dolcemente senza che Giusy se ne accorgesse, intenta qual era a sproloquiare sulle proprie fantasie. Solo quando Maria glielo fece notare, corse indietro a riprenderselo.
«Cattiva!» le disse Giusy ridendo, mentre tornava da lei.
Maria le sorrise e ripresero a camminare, senza accorgersi che le due uniche nuvole in cielo le stavano seguendo fino a casa.
Maria abitava in periferia, in una meschina e decadente abitazione di due piani: una facciata di un giallo scolorito che sapeva di grigio, le tegole in un equilibrio precario, il muro screpolato e un terriccio brullo a separarla dalla strada. Solo grazie alla cura delle donne di casa e alle pareti rinfrescate, quattro anni prima, di un accesso rosso si riusciva a ricreare quell’ambiente caldo e accogliente che si confà a una dimora.
Maria guardò la casa con un sorrisetto amaro, e prese le chiavi dalla tasca dello zaino.
«Sono tornata.»
«Maria, oggi tuo fratello pranza da un compagno!» le gridò la madre dalla cucina. «Corri a lavarti le mani e vieni a tavola!»
La madre di Maria era una laboriosa donna di mezza età. Col suo corpo a pera e i capelli castani, ricci e raccolti in un elastico, svolgeva ogni genere di faccenda in casa, dalle mansioni di una casalinga a quelle professionali -come la riparazione di un lavandino o la sistemazione di una porta- merito dell’energia giovanile di cui si vantava spesso. Aveva gli stessi occhi castani di Maria, ma la sua carnagione era più scura, sicché madre e figlia avevano nell’insieme un aspetto assai diverso.
Intanto che la madre metteva a tavola il primo di pasta con patate e zucchine e il secondo di cotolette fritte, Maria le diede una mano ad apparecchiare prendendo le posate e i bicchieri dai cassetti.
«Com’è andata oggi a scuola?» le chiese la madre mentre versava la pasta nei piatti.
«Come al solito» rispose Maria, facendo spallucce, «ho preso il voto più alto nel compito di italiano» le sorrise timidamente.
«Brava! Continua così!» la lodò entusiasta, caricando il suo piatto con altre due porzioni. «Studia, altrimenti finirai come la sottoscritta, a sgobbare tutto il giorno» rise.
«Dai, mamma, non dire così…» le disse imbarazzata, intanto che posava l’ultima forchetta, «quello che fai tu ogni giorno non riuscirebbe a farlo nessun’altra al mondo.»
«Per forza, non possiedono mica la mia energia!» esclamò, stringendo il polso con l’altra mano. «Ora, su, mangia, prima che si raffreddi.»
Maria celò con ritegno il suo sorriso e gustò in silenzio il piatto, pensando a tutto ciò che la madre facesse per loro. L’aiutò a sparecchiare e a lavare i piatti, e andò nella sua cameretta.
La cameretta di Maria era la prima stanza a destra salendo le scale. Come ogni altra della casa, non era particolarmente spaziosa ed era arredata giusto con il necessario, ma per Maria era decisamente il posto migliore della casa. Andava fiera dei suoi poster, della sua scrivania, della sua libreria, del suo letto, del suo armadio, del suo balconcino… di ogni cosa, dal momento che lei si impegnava a mantenerla solare e pulita.
Maria si lasciò andare sul letto, pregustando in anticipo la dormita di domenica. Con i piedi ancora per terra e le braccia stirate, si girò due volte, avanti e indietro, fino a trovare la posizione comoda. La testa che usciva di poco dal letto era rivolta al soffitto. Chiuse gli occhi e lasciò navigare la mente libera, dove la portava.
Pensò alla sua vita.
Tutto sommato, non era così male. Come tutti, aveva i suoi problemi e le sue preoccupazioni ma, a differenza di tanti, lei si impegnava a migliorare la propria condizione, lavorando e studiando a tempo pieno. Nutriva una smodata fiducia in se stessa e si riteneva la ragazza più bella e intelligente del pianeta. Il modello a cui tutte le ragazze dovevano ambire.
Maria conduceva una vita semplice e tranquilla…
Almeno, fino a quel momento.
Un ticchettio sommesso e stridulo, come se qualcuno avesse punteggiato una lastra di vetro col dito, si diffuse nell’aria e le fece aprire gli occhi. Sul soffitto una piccola ombra, rotonda e un po’ deforme, si muoveva adagio. Proveniva da fuori.
Maria ruotò il capo e intravide uno strano oggetto giallo che, come una piuma, cadeva sul balcone. Volle andare a vedere.
Aprì la porta e lo prese tra le mani prima che toccasse terra. Sembrava un batuffolo di cotone, ma era di un giallo splendente e molto, molto più morbido e delicato. Toccarlo dava una piacevole sensazione, come facevano quelle palline anti-stress in commercio, se non in maniera più efficace.
Maria tornò dentro e si sedette sul letto con le gambe incrociate, cercando di capire cosa potesse essere. Un ornamento per la casa? Un giocattolo per bambini? Un nuovo prodotto della tecnologia? Non le veniva in mente nulla di sensato.
Intanto che si dilettava a premerlo con le mani, il batuffolo si gonfiò improvvisamente e si disperse nell’aria, come tante lucciole.
Rimase qualcosa di solido avvolto dal luccichio dorato, tra le sue mani.
Una collana.
Maria non si sarebbe mai immaginata che all’interno di quel batuffolo così morbido vi fosse nascosto qualcosa di solido come una collana. Si domandava, peraltro, di chi fosse e come avesse fatto ad arrivare da lei.
In quell’istante, però, mise da parte i dubbi, non potendo esimersi dall’ammirarla: era una splendente collana con il pendente di un vistoso rubino, legata da una sottile catenina in argento.
Un autentico gioiello… peccato che non fosse sua, si dispiacque. Doveva cercare il proprietario, sicuramente in apprensione per la perdita, e restituirgliela. Sebbene, chi si sarebbe mai accorto se… no, niente compromessi! Al limite, poteva solo provarsela.
Maria andò allo specchio davanti al letto e se la mise sopra il maglioncino rosso. Fece una piroetta, guardando come le stava.
Le donava molto. La rendeva ancora più affascinante ed elegante. Quasi un peccato doversela togliere.
Maria sorrise allo specchio e i suoi denti brillarono. Ma non furono solo i suoi denti a risplendere… anche la gemma della collana s’illuminò.
Sulla camera calò il buio e rimase solo la luce emanata dal rubino. Getti di fumo rossi e gialli eruppero dalla collana e si diffusero velocemente per la stanza. Soffiò un forte vento, spargendo il fumo in ogni direzione, mescolandolo e dividendolo di continuo.
I mobili tremavano. La tenda sventolava. Il lampadario ondeggiava.
Maria, atterrita, non aveva idea di cosa stesse accadendo. Con forza strinse la collana e ritrasse la testa, tentando di orientare quel miasma che fuoriusciva nella direzione opposta alla sua, affinché le arrivasse addosso il meno possibile.
Non ci riuscì del tutto. A malapena poteva aprire gli occhi a causa dei forti getti che le appannavano la vista.
Maria indietreggiò, cercando qualcosa a cui aggrapparsi. Si tenne al muro per rimanere alzata, ma le sue gambe iniziarono a tremare e a piegarsi.
Pian piano il flusso della collana si arrestò e ogni cosa nella camera tornò alla sua staticità. Il fumo rosso cominciò a raccogliersi nel centro della stanza, mentre quello giallo si disperdeva con lentezza in ogni angolo.
Maria, che aveva ceduto fino a ritrovarsi seduta a terra, aprì gli occhi a rilento. Con la schiena attaccata al muro, si strinse le gambe al petto.
Il fumo si stava schiarendo e si intravedeva una possente figura. I tratti, sempre più nitidi, erano simili a quelli di un essere umano. Gli occhi lampeggianti che comparvero le fecero raggelare il cuore.
La creatura si mosse pigramente, scrocchiando le ossa e ruotando il collo con le mani.
«C-che cosa s-ei?» mormorò Maria con voce spezzata.
L’essere si passò la mano in testa e parve sistemarsi i capelli. Si voltò verso Maria.
«Cosa sono?» ripeté, con voce ronca. «Che domande…» si girò completamente, «sono un Genio.»
Maria spalancò gli occhi.
Un Genio? Non è possibile, pensò, scuotendo la testa. Deve essere senz’altro un…
«No, non siamo in un sogno» disse il Genio, scorgendo il suo volto affannato.
Maria sentì un brivido correrle lungo la schiena. Quell’essere le aveva appena letto il pensiero! Nessuna creatura al mondo era capace di una cosa simile, ma lui l’aveva appena fatto.
Maria non sapeva come comportarsi né, tantomeno, capiva cosa stesse succedendo. Solo da bambina aveva creduto alle storielle sui fantasmi, gli spiriti e le maledizioni, e ora, da sedicenne, come poteva accettare tutto ciò? Doveva esserci una spiegazione logica che giustificasse l’accaduto. Se voleva trovarla, doveva affrontare la situazione con sangue freddo e a testa alta, e no rimanendo a terra, impaurita, in uno stato di tanatosi.
Con uno slancio di coraggio, Maria si aggrappò al muro e si mise in piedi. Il suo corpo stava riacquistando vigore.
«C-chi sei?» proferì con una voce tremante che non nascondeva le sue emozioni. «Perché sei qui? Cosa vuoi da me?»
Il Genio continuò a starsene per i fatti suoi.
«Come puoi leggere nel pensiero? No…» scosse la testa per convincere se stessa, «non è assolutamente possibile…»
«Ah…» sbuffò il Genio, «non ti facevo così emotiva…» si schiarì la voce con un colpo al petto. «Per prima cosa, sarà meglio rimuovere questo fumo che ci offusca la vista.»
Il Genio alzò le braccia e spalancò le mani, come se dovesse afferrare una grossa cesta. Le sbatté in un colpo e, come d’incanto, il fumo fu istantaneamente risucchiato. La luce tornò a risplendere e la stanza riacquistò il suo aspetto ordinario.
Adesso Maria poteva vederlo chiaramente. Il Genio aveva l’aspetto assai simile a quello di un essere umano, a cominciare dalla sua forma e corporatura che sembravano quelli di un giovane venticinquenne.
Appena muscoloso, il Genio possedeva un fisico imponente, superando in altezza i due metri. I neri capelli, asimmetrici e ondeggianti in alto, erano attraversati qua e là da piccoli ciuffi rosa e, per sagoma, ricordavano delle fiamme. Le iridi dei suoi occhi splendevano e ognuna aveva un colore differente: gialla a sinistra, rossa a destra. La maglietta, aderente e dello stesso colore degli occhi, lasciava scoperta la pancia e aveva la manica lunga solo al braccio destro, per far ammirare i tatuaggi floreali sul sinistro. Le dita erano di un rosso amaranto e la mano destra era adornata da una polsiera dorata. Alla vita una fusciacca bordò teneva alti i pantaloni rossi e i piedi erano sprovvisti di calze e scarpe. Un aspetto troppo stravagante per poterla rassicurare.
Ora che lo vedeva bene, Maria si rese conto che stava sospeso a una ventina di centimetri dal suolo.
Come se lo avesse percepito, il Genio scese a terra e si avvicinò di due passi a Maria. Inclinò il capo, chiuse gli occhi e si grattò la testa cercando le parole adatte per spiegarle la situazione.
«Ascoltami, devi sapere…»
SBAM!
Non ebbe in tempo di completare la frase che cadde a terra avvertendo un dolore alla testa. Maria lo aveva colpito con il manico di legno della scopa. Aveva deciso di attaccarlo, prima che le facesse del male.
«Non mi incanti, sai?» gli disse Maria minacciosa, puntandogli il manico dietro la testa. «Questo è un sogno dentro il sogno. La settimana scorsa ho visto in televisione un film sui sogni e la mia mente deve averlo rielaborato ora che sto riposando» fece un cenno con la testa per indicare il letto a suo fianco.
«Il batuffolo luccicante, la collana, tu… non c’è dubbio… certe cose non possono succedere nella realtà. Tu sei soltanto una proiezione della mia mente.»
Il Genio, con la faccia stampata a terra, neanche l’ascoltava, impegnato a massaggiarsi il capo con delicatezza.
«Volevi entrare nel mio subconscio per sconvolgerlo, ma hai fallito. E ora che ho preso coscienza del mio sogno, posso manovrarlo come mi pare!»
Maria sorrise con malizia. Dato che credeva di trovarsi in un sogno, poteva agire senza freni, senza che nessuno la potesse giudicare o vedere. Aveva solo l’imbarazzo della scelta su cosa fare alla sua vittima.
Prima di iniziare, in ogni caso, voleva legare il Genio per vanificare ogni suo possibile tentativo di fuga. Sicché, mise a fuoco nella mente una magica pistola spara-corde-imprigionanti, di sua immediata invenzione, e, allungando il braccio, aprì la mano pronta ad afferrarla.
«Vieni a me, magica pistola imprigionante!» gridò con presunzione.
Non accadde nulla.
Maria rimase con la mano alzata diversi secondi e il dubbio si impadronì di lei. Alla possibilità che fosse tutto vero e che non si trovasse in un sogno, arrossì come un pomodoro per la vergogna.
Ma non demorse.
Doveva esserci una spiegazione.
     
 
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